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Reportage Pixar: la creatività sotto la lente di ingrandimento
Verso l’infinito e oltre!
Lo slogan di Buzz Lightyear, uno dei protagonisti di Toy Story insieme al cowboy Woody sembra perfettamente azzeccato anche per la Pixar. Si rischia di peccare di presunzione? Forse. Ma le cifre parlano chiaro: dal 1995, quando il primo Toy Story è stato rilasciato (primo film di animazione realizzato interamente in computer grafica), la Pixar ha realizzato undici film e ognuno – fra record di incassi al botteghino (mediamente 250 milioni di dollari per pellicola solo negli Usa) e prestigiosi premi e riconoscimenti – è stato un successo folgorante, tanto da guadagnarsi consenso di pubblico e critica e un ampio spazio sulla stampa di tutto il mondo. Uno spazio fatto anche di dettagliati reportage da parte di alcune delle riviste più prestigiose che si dedicano a questa forma di giornalismo dai tempi lunghi. Vediamone alcuni.
New Yorker
“Chiunque conosce la Pixar”, esordisce così il New Yorker, settimanale raffinato che nella sua storia ha ospitato tra i migliori servizi giornalistici mai scritti. E che non ha mancato di inserire l’azienda fondata da John Lasseter nella sua galleria di ritratti dipinti con parole attraverso un’analisi minuziosa di Anthony Lane della scalata al successo della celebre casa di produzione cinematografica. Fra i motivi del successo della Pixar – si legge nel servizio – c’è il modo in cui la tecnologia umanizza ambienti e personaggi della storia senza minarne il realismo, è il caso del modo così naturale in cui la luce illumina la vegetazione in A Bug’s Life. D’altronde lo stesso Lasseter lo ha detto in occasione del recente incontro con Meet The Media Guru: «La tecnologia è solo uno strumento».
Uno dei paradossi dell’animazione – spiega il New Yorker – è che più il dettaglio è semplice, più è difficile da riprodurre. Per dare un’idea, Dave Mullins, uno degli animatori, ha impiegato ben sei settimane per rappresentare Helen Parr, la signora degli Incredibili, mentre sussurra una frase al telefono, lascia cadere la cornetta e si sistema nervosamente i capelli dietro alle orecchie. Quaranta giorni per fare prendere vita ad un disegno «che arriva qui morto, tabula rasa, senza emozione».
Wired /1
Anche Wired, la bibbia californiana della tecnologia, non ha mancato di inviare alcune delle sue penne più dotate a ritrarre il mondo creativo dell’azienda che ha dato vita al pesciolino Nemo e compagni. In un primo servizio, datato 2004, si va alla scoperta della filosofia di lavoro seguita alla Pixar scoprendo che l’elemento chiave di ogni storia sono le emozioni. Insomma, prendere un personaggio e fare in modo che il pubblico lo ami. Che è poi lo stesso concetto che muove la creatività del team Pixar, come spiega l’animatore Brad Bird, alla corte di Lasseter dal 2000: «La gente qui ama i personaggi ed è consapevole del fatto che questi film, se fatti correttamente, sono come esseri viventi». D’altronde se, come spiega ancora Wired, il periodo di gestazione di un film Pixar dura mediamente quattro anni, un po’ di simpatia per il personaggio che si sta disegnando deve pur nascere.
Wired /2
Sempre la rivista degli smanettoni visionari ha poi cercato di penetrare come nessuno nel processo creativo di John Lasseter e compagnia in un servizio che va alla scoperta dei segreti dietro la realizzazione di Toy Story 3. Tutto nasce – ci racconta la rivista – da una stanza, un paio di divani, diverse tazze di caffè, un disegnatore là, un grafico qua, un programmatore laggiù. Ma tutto assemblato con metodo: prima ci vuole un’idea. Geniale, possibilmente: supereroi della porta accanto, automobiline parlanti, e così via. Poi si procede con la sceneggiatura che, una volta pronta, sarà sviluppata sotto forma di storyboard con immagini grezze e di story reel, quei libricini che sfogliati ad alta velocità danno l’illusione del movimento (uno zootropio di carta, insomma). Qui finisce il periodo di pre-produzione. Restano poi altri due anni dedicati alla produzione stessa: modellazione, animazione e rendering. E tutto quello che manca per trasformare qualche scarabocchio su un foglio (anzi, su una tavoletta digitale, ormai alla Pixar usano solo quelle) in un kolossal sul grande schermo.
Esquire
La rivista Esquire ha incontrato l’universo Pixar in un momento di grande euforia: era la primavera di quest’anno e John Lasseter aveva appena annunciato che il sequel di Cars era finalmente terminato. Sarebbe diventato un fenomeno da 470 milioni di incasso in tutto il mondo, l’ennesimo successo targato Pixar. D’altronde – spiega il reportage di che è andato a scavare alla origini dell’azienda – Lasseter «non ha mai fallito, tranne una volta», e proprio da qui è nato tutto. Era il 1983 quando la Disney, dove lavorava come animatore, lo licenziò in tronco solo perché «aveva puntato troppo in alto». Allora, la sua curiosità per la computer grafica andà a sperimentarla negli studi di George Lucas fino al momento dell’incontro con la genialità di Steve Jobs. Fu lui a porre le basi della Pixar e a lanciare quel promettente animatore appena ventenne e dal discutibile gusto nella scelta delle camicie verso il successo. «L’unica cosa che Steve Jobs mi ha mai chiesto in tutti gli anni in cui siamo stati partner – afferma Lasseter – è stata: rendilo grande!». E lui lo ha fatto, a cominciare da Toy Story. Nei film di Lasseter niente toni nostalgici tipici della Disney delle origini, con le sue principesse e le sue canzoni smielate. Non c’è nostalgia nemmeno in WALL·E, il robot che vive da solo nello squallore post-apocalittico. La Pixar è luce e emozione, colore e divertimento.